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"Isn’t it ironic?": la mostra a Satura, nella sede di Palazzo Stella

Un “libro nero” di vizi a cui rendere conto, troppe poche virtù su cui si possa iniziare a costruire una solida via della santificazione. Senza volerlo il nuovo Millennio continua a essere una fucina di antieroi del quotidiano, protagonisti del momento, personaggi infilatisi in cliché fin troppo reali per apparire davvero surreali. A loro si rivolge l’attenzione di Vincenzo Marino, è con loro che osserva, incamera, rilegge opacità e incoerenze che fanno da sfondo alla popolarità dei nostri giorni. Per la cultura pop, quindi, la pensione è ancora lontana, resiliente come poche altre si è arricchita di abitudini entrate a regime, esposte alla luce di un sole che le ha illuminate quali tratti salienti della società attuale. Almeno un pezzetto di quella cultura non può non essere considerata parte integrante della pittura “vigile” di Marino. In certi frangenti è indispensabile stare all'occhio ed essere immediati quanto accurati nel recitare i termini in uso alle proprie ragioni, perché qui non è consentito perdersi nel chiacchiericcio populista da talk show nazionale. Troppo facile esagerare; più difficile essere Marino e non lasciarsi prendere la mano, facendosi cullare dall'effetto agrodolce di un “poeticamente scorretto” mix tra realtà e fantasia, da una facciata user-friendly mirata a de-promozionare l'andazzo presente.

Maturare un cosciente disincanto allo stato attuale delle cose è forse l'atto più surreale possibile. Surreale perché sovrastare la realtà stessa è l'unico modo per centrare il bersaglio senza produrre una conflittualità da guerriglia, di questi tempi all'ordine del giorno. Surreale perché non è affatto un gioco da ragazzi parlare tanto senza parlarsi addosso, distaccandosi solo il giusto dai codici autoreferenziali della mass medialità imperante.

Si può dipingere alla perfezione estraniandosi altrettanto perfettamente dal proprio contesto sociale. Oppure scegliere di dedicarsi a immagini che si manifestano diventando a loro volta manifesto, spingendo su un’iconologia geneticamente modificata dal tempo. Dando nuova materia significante a vecchi problemi. Passa il tempo, ma aveva proprio ragione da vendere il caro Buonarroti: «Si dipinge col cervello, non con le mani».

(Testo critico a cura di Andrea Rossetti)


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