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La Tosca di Puccini al Carlo Felice

La Tosca di Giacomo Puccini è un’opera degli eccessi. La gelosia di Tosca, l’eroismo repubblicano di Mario Cavaradossi, la cattiveria del Barone Scarpia: tutto è estremo, in questa vicenda ambientata nella Roma politicamente in subbuglio del 1800.

Nel libretto di Illica e Giacosa i momenti forti non si contano. La tortura di Cavaradossi e la sua fucilazione in scena. La libidine sfrenata di Scarpia. Tosca, cantante lirica vissuta “d’arte e d’amore” senza far “mai male ad anima viva”, che uccide Scarpia (il capo della polizia davanti a cui “tremava tutta Roma”) congedandosi dal suo cadavere con un rituale tra il macabro e il solenne. Il salto nel vuoto di Tosca dai bastioni di Castel Sant’Angelo. C’è chi, come Alberto Arbasino, vede in Tosca una messa in scena della Crudeltà, il manifesto di un “Teatro della Ferocia” davanti a cui impallidiscono titoli giudicati in genere molto più perfidi. La storia, del resto, è tratta dal dramma omonimo (1887) di  Victorien Sardou, uno specialista del teatro a tinte forti che andava di moda nella Parigi di fine ’800. L’impatto della vicenda è intensificato dalle scelte musicali di Puccini, che si susseguono con il tempismo di un montaggio cinematografico: melodie di sicuro effetto, armonie inaspettate, colori timbrici di densità pittorica. 

A più di un secolo dalla prima assoluta (Roma, Teatro Costanzi, 14 gennaio 1900), Tosca rivive nell’allestimento del Carlo Felice firmato dal regista Davide Livermore, che vede in quest’opera lo «scontro ideologico tra lo Stato Pontificio e la modernità illuminista» raccontato come una «proto-sceneggiatura cinematografica».


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