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"John Gabriel Borkman" di Ibsen al Teatro della Corte

Il Borkman di Henrik Ibsen, in scena alla Corte dal 6 al 17 novembre 2018, fa esplodere le ambizioni dell’Ottocento intriso di superomismo e anticipa i grandi traumi del Novecento.

Edvard Munch lo definì “il più potente paesaggio invernale dell’arte scandinava”. Ma il freddo dell’inverno, in questa vicenda scabrosa e claustrofobica, è tutto interiore, dell’anima.

John Gabriel Borkman è un self made man: per lui conta la carriera, a tutti i costi. Ha rubato, ma non per sé. Lo ricorda lo storico del teatro Roberto Alonge: ruba «perché si sente il portavoce del progresso, è l’angelo sterminatore del vecchio mondo precapitalistico». Condannato al carcere per i suoi affari poco chiari, Borkman è tornato libero ma si chiude in casa, in attesa di una “grande occasione”. Piero Gobetti descrisse il teatro di Ibsen come «l’itinerario dell’eroe in cerca del suo ambiente». Qui l’ambiente è condiviso da due sorelle, entrambe presenti nella vita dell’uomo: una è la moglie, a cui è legato da un rapporto freddo, aspro e irrisolto; l’altra è il suo primo amore a cui John Gabriel Borkman aveva rinunciato per interesse. È uno scontro fra femminile e maschile, è un abisso. Afferma ancora Alonge: «È l’universo della Cultura (che vuol dire repressione) contro la vita dell’istinto, della carne, della felicità».

John Gabriel Borkman ha attratto i maggiori registi al mondo: è un’opera complessa, austera, inquieta e di raffinata bellezza per quei ritratti umani, per i dialoghi che possono essere attualissimi e al tempo stesso eterni. Affidati all’interpretazione di tre grandi attori, a partire da Gabriele Lavia come protagonista, con Laura Marinoni e Federica Di Martino, il Borkman, nelle sue “scene da un matrimonio” che sarebbero state care a Bergman, fa ancora esplodere le ambizioni di un secolo, l’Ottocento, intriso di superomismo e idealismo, di simbolismo e psicopatologia, ma già svela, in nuce, quelli che saranno i grandi traumi del Novecento. E forse di oggi.


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